sabato 18 ottobre 2008

Calatubo, eutanasia di un castello


Vorrei scrivere questa nota per aforismi, quasi con pensieri franti, come si addice alla descrizione di un castello che si frantuma.
Calatubo è il sito più antico del territorio alcamese, il più anticamente importante, con continuità di insediamenti dalla preistoria alla protostoria, al medioevo.
Fu un centro della cultura sicana, greca, romana, araba…
Idris lo descrive nel 1154 come un grande casale arabo, pieno di vita, con campi di grano ben coltivati, con un porto di mare.
E’ abbandonato, violentato, rubato pezzo per pezzo, mattone per mattone, pietra per pietra, obliato.
Scavato clandestinamente da tombaroli perfino con ruspe.
La necropoli completamente saccheggiata, cancellata; le ossa dei morti oltraggiate, disperse.
Ci ha dato frammenti, vasi greci, coppe ioniche, kilikes, skyphoi, anfore, lucerne ombelicate, assi romani, anse con bolli di Rodi, di magistrati eponimi, che ricostruiscono indirettamente le vie mediterranee del vino, del grano, dell’olio.
C’è un reperto misterioso poi, naturalmente trafugato e perduto: una maschera fittile di produzione locale del VI secolo a.C..
E’ un volto magnetico, ha occhi a mandorla che fissano lontano, stregano, e un naso prominente sulla bocca atteggiata a un enigmatico sorriso. Potrebbe essere maschio o femmina, un giovane o una vecchia; fissa i millenni, penetra nell’oltretempo: è il volto di uno sciamano elimo o il sorriso dell’Essere originario?
Il castello di Calatubo fu edificato superbamente su una rocca a strapiombo per essere inespugnabile.
Con una battaglia sul campo sarebbe stato imprendibile, invece è stato distrutto, quasi raso al suolo.
Chi lo progettò non poté prevedere la venuta di un nemico così barbaro.
Il castello di Calatubo infatti non è caduto a seguito di un’invasione dei Vandali o dei Visigoti ma per mano di una più terribile orda barbarica: l’ignoranza e l’inanità delle amministrazioni comunali.
Altra invasione dunque più subdola lo ha abbattuto, meno clamorosa, meno combattibile e più esiziale.
Un serpentone autostradale lo irride, il tempo lo erode, l’indifferenza lo sommerge.
E muore in una malinconica eutanasia.
Sarei tentato di plaudire a questa estasi d’abbandono: c’è poesia, emblema, contrappasso, destino, la cifra della Sicilia eterna e maledetta.
Sensuale misticismo d’atarassia nell’oblio.
E’ il sorriso ironico dell’eternità, il sorriso di sciamano del misterioso uomodonna della maschera.
Ogni tanto una sparuta delegazione di pinguini in giacca e cravatta si arrampica fino alla rocca, celebra sbrigativamente un rito di vuote parole, assicura l’impegno inderogabile per salvare il castello: sono assessori, sindaci, onorevoli.
Vi dico: piuttosto che questo teatrino meglio il silenzio. Non parliamone più.
C’è almeno poesia in questa rovina senza ritorno, nel mormorare del torrente Finocchio tra una raffica di vento e l’altra nelle torri diroccate, in un’ape che sopra i fiori viola del camedrio sibila preghiere in voli trattenuti e improvvise accelerazioni circolari come un dervisci in estasi in una danza sufista.
Il castello si inabissa lentamente in una lotta impossibile contro l’eternità e cede alle ultime dolci invasioni: l’abbandono, le argentee colonie di assenzio, gli eserciti dell’ortica, della malva verde, le piante pendenti di capperi fioriti nei muri…
Cede anche all’oltraggio distratto di un pastore che da decenni vi dimora col suo ovile e forse non ha pensato di essere l’ultimo abitante di Qal’at awb, il grande casale arabo, l’ultimo signore del castello dopo una interminabile catena di nobili: … Berloni, Peralta, Duca di Bivona, Moncada, De Ballis, Papè, principe di Valdina…
Le pecore, le bibliche semitiche pecore.
Quella in fondo ad est, triangolare, è la “torre dei colombi”, sempre piena del loro tubare gutturale, come volessero comunicarci il segreto del castello con i suoni criptici di un alfabeto esoterico.
E questa di Sud ovest è (era, è crollata da due anni) “a turri d’u Re Biddicchiu”.
Il barone D. Nicolò Flugj Papè nel libro Calatubo di mons. Regina: “(…) sotto questa torre si trova una galleria segreta. Fu murata all’inizio del secolo dal principe D. Pietro Papè in seguito al grave incidente occorso a un giovane impiegato del castello. Vi era entrato per curiosità e ne era uscito muto per sempre, forse traumatizzato dal rinvenimento di scheletri umani: si trattava di resti mortali venuti probabilmente alla luce durante le vangature ed ivi depositati. Era chiamata la torre d’u Re biddìcchiu perché secondo una leggenda vi era stato tenuto prigioniero un figlio ancora in tenera età, forse naturale, del re Martino”.
Meglio non entrare nei cunicoli, potrebbero assalirvi voci di fantasmi, di turchi, i lamenti di “u re Biddicchiu”, o il volto di medusa della maschera dello sciamano.
Dal castello tutto è magia, apparizione iniziatica, vertigine: il mare sembra una stoffa, le montagne onde improvvisamente pietrificatesi, le colline tappeti volanti.
Trent’anni dopo del geografo Idris, nel 1184, il pio pellegrino della Mecca, l’andaluso Ibn Gubayr, naufrago in Sicilia, partendo da Palermo e diretto a Trapani, arrivato a Carini, preferì la via interna e passò per Calatubo. Quindi sostò una notte in una borgata detta Alqamah, piena di mercati e moschee: “(…) Di là partimmo e dopo un breve tratto arrivammo al castello detto Hisn allamah (castello dell’acqua termale). Scendemmo dai cavalli e ristorammo i corpi con un bagno…”.

Nessun commento: